Risposta a Giuseppe Zenti, vescovo cattolico di Verona

Ritengo opportuno rispondere all'intervista concessa dal vescovo cattolico di Verona Giuseppe Zenti e qui riprodotta:


Sua Eccellenza vuole “un confronto dialogico sulle questioni culturali di fondo”; purtroppo lui parte male.

Il primo errore è che non sa quali sono i suoi interlocutori, e quello che pensano.

Infatti comincia parlando de “la persona che intende cambiare sesso o si dichiara omosessuale o lesbica”. Il problema è che la realtà delle minoranze sessuali è molto più variegata; noi ci lamentiamo che si è scordato delle persone bisessuali, ma possiamo aggiungere che non conosce la realtà delle persone transgender, che non necessariamente vogliono “cambiare sesso”, e di altre minoranze come gli asessuali e gli intersessuali.

Per conoscere i suoi interlocutori non deve affidarsi ad intermediari non accreditati il cui interesse non è capirli, ma screditarli, per esempio attribuendo loro intenzioni che non hanno mai avuto: la queer theory non sostiene che il genere sia completamente indipendente dal sesso, ed anzi sa benissimo che non esistono persone neutre che non devono fare altro che scegliere il genere da indossare come si sceglie il vestito per un’occasione mondana, e nessuno propone di fermare lo sviluppo sessuale di tutti gli adolescenti finché non scelgono esplicitamente l’identità di genere da adottare.

Inoltre, non deve fare l’errore che ad un lessicografo costerebbe la carriera. Qualsiasi lessicografo sa che fornire l’etimologia di una parola è utile, ma non può accontentarsene perché non sempre il suo significato le corrisponde. Due parole sono alquanto infelici da questo punto di vista: “omofobia” ed “antisemitismo”.

Come è ben noto, la parola “antisemitismo” ha un’etimologia fuorviante: chi la incontra e non conosce la storia europea può credere che designi l’odio per tutte le persone che parlano una lingua semitica – in realtà indica sempre e solo l’odio per le persone e la cultura del popolo ebraico. Perfino i nazisti dovettero ricordarlo ai perplessi dignitari arabi che volevano allearsi con loro per liberare il Medio Oriente dagli inglesi – e dagli ebrei.

La parola “omofobia” (così come “islamofobia”, “lesbofobia”, “bifobia”, “transfobia”, e magari altre ancora) non designa una paura irragionevole, ad onta dell’etimologia, ma il disprezzo e l’odio per le persone omosessuali (oppure mussulmane, lesbiche, bisessuali, trans*, eccetera).

Questo è l’uso corrente della parola, e Ludwig Wittgenstein affermava con ogni ragione che il linguaggio non corrisponde alla realtà, e che il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio.

Il voler invece usare l’etimologia (spesso discutibile) delle parole come strumento per cogliere l’Essere nel suo svelarsi, e pretendere quindi di inchiodare le parole al loro etimo, anziché accertarne l’uso effettivo su cui una comunità di parlanti concorda, è la posizione di Martin Heidegger – e non è un caso che l’autoritarismo implicito in questa presa di posizione divenisse esplicito nell’adesione di Heidegger al nazismo.

Vorremmo un interlocutore che non si arrogasse sulle parole un potere superiore a quello di ogni altro utente del linguaggio. Altrimenti ci saremmo già rivolti agli enti pubblici e privati che sviluppano e perfezionano linguaggi di programmazione per computer.

Per quanto riguarda la famiglia, ogni società è libera di definirla a suo modo, purché non faccia male a nessuno. Il matrimonio egualitario a nessuno fa male, quindi perché opporsi ad esso?

Raffaele Ladu